Ernesto Lamagna - Lo scultore degli Angeli




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La Filocalia dell'Arte Sacra

"Hoc opus completum est in regia urbe Costantinopolis adiubante domino Pantaleone qui eas fieri iussit anno ab incarnatione Domini millesimo septuagesimo sexto"

Questa epigrafe, incisa sulla parte inferiore della valva destra di una delle porte bronzee del santuario garganico, racchiude uno splendido capitolo di storia della fede e dell'arte, scritto in un contesto geografico anch'esso assai significativo e gravido di memoria: la regia città di Costantinopoli. Si tratta di un certo Pantaleone di Amalfì, dominus opulento e pio, che dopo aver fatto dono di altre porte a Roma, a Montecassino e ad Atrani (paese vicino ad Amalfì), offre nel 1076 alla Basilica dell'Arcangelo Michele tampulchrum laborem, "un così bei lavoro" da essere ricordato e tramandato nel tempo per la sua bellezza. Di questo, Pantaleone ha vivida coscienza, tant'è che lo stesso munifico donatore, rivolgendosi ai rettori del santuario, così li supplica e discretamente li scongiura:

"Rogo et adiuro vos rectores Sancii Michaelis ut semel in anno detergere faciatis has portas sicut nos nunc ostendere fecimus ut sint semper lucidae et clarae"

Un esempio, quello di Pantaleone, di munificenza e magnificenza: inscindibile binomio che ha guidato e retto la storia della pietà, la storia bimillenaria della Chiesa nell'itinerario della bellezza, come canto di lode all'eterna e increata Bellezza.

L'attenzione al gratuito, munus da offrire all'Altissimo, e al pulchrum, visione da contemplare nella verace magnificenza delle forme non si è estinta ne inaridita tra la nostra gente. La corrente calda proveniente da Amalfì, Monte Sant'Angelo, Troia, Trani... ha felicemente raggiunto San Vito dei Normanni vicino a Brindisi là dove un peritus sculpendo è stato chiamato a modellare due porte di bronzo, annoverate già tra le Porte del Bello. Intendiamo parlare di una comunità parrocchiale, quella di Santa Maria della Vittoria e di uno scultore, maestro e cantore del Bello, Ernesto Lamagna: ambedue animati da una sensibilità non comune e da un amore grande alla paradosis, come tradizione da trasmettere e da far rivivere, in linea di continuità nella novità. Le due porte che ornano la Basilica di Santa Maria della Vittoria, nascono in una stagione felice circa la riflessione teologica sull'estetica.

Dopo il tramonto dei grandi racconti teologici e delle pretenziose filosofie della prassi si va onorevolmente imponendo una sintesi nuova di queste due dimensioni lungo la via della bellezza. Il tempo che si annuncia — lo crediamo fermamente — sarà infatti quello di una ritrovata filocalia, di un amore della bellezza capace di farne riconoscere il volto nel Signore Crocifìsso — Risorto, vera porta della bellezza che libera il frammento e lo redime per l'eternità. Anche se dobbiamo coraggiosamente ammettere che da un lato la bellezza è stata rapita e rinchiusa nelle sfere di una filosofìa idealista, dall'altro lato nei manuali di una semi-scolastica è stata fossilizzata nelle categorie del riflesso.

Perquesto, l'arte moderna e contemporanea ha spesso rigettato la bellezza come categoria idealista romanticista e siamo testimoni di intere correnti dell'arte moderna che non aspirano affatto alla bellezza, anzi. Sulla scia di una ribellione alla cultura intellettualista, una cultura della forma rigida, forzatamente propagandata, sono sorte le correnti artistiche della ribellione e dell'affermazione del soggetto di fronte agli accademismi spersonalizzanti. Si sono creati linguaggi soggettivi, idolatrando l'originalità come una specifica forma di espressione di essere e di linguaggio e giungendo così all'incomunicabilità. E quando nell'arte si spegne la comunicazione, si spegne l'arte stessa o diventa desacralizzante, addirittura disumanizzante, spogliata, cruda, artefatta.

Eppure l'umanità urge di bellezza oltre l'effimero per dirigersi alla contemplazione delle realtà superne. Di questo anelito profondo e di questo bisogno vitale si son fatti interpreti la Chiesa con il suo magistero ultimo e quanti hanno fatto dell'arte uno strumento della nuova evangeliz­zazione. Tra questi, senza tema di smentita, c'è Ernesto Lamagna, un artista nel senso medievale del termine che cerca di esprimere ciò che sente dentro, divenendo un eccellente comunicatore di quei valori alti e supremi di cui tutti abbiamo bisogno e che egli, possedendoli, riesce efficacemente a trasmettere. Nelle sue opere, prevalentemente create per il culto, c'è una sorgiva bellezza che parla e soggioga. Senza mai indulgere ad espedienti manieristici di stampo nostalgico e senza carica inferiore, le sue opere sono frutto di una forza che non gli appartiene, ma che viene da un altrove, cioè da Colui che della bellezza è il principio e la scaturigine.

Se nel Lamagna l'arte del bello è un carisma, esso comunque non è mai disgiunto da un impegno generoso e da una passione personale. Il suo ministero di artista è infatti frutto di dura fatica, di chi ha davvero la consuetudine, meglio V habitus di lavoro, quasi di bottega, che gli permette di trattare e plasmare la materia con la vigorosa e signorile celerità di un pollice creatore e di indossare con naturale umiltà la casacca degli operai. Standogli a fianco e guardando i tanti disegni preparatori ad un'opera commissionatagli, si può cogliere la metodica serietà con cui lavora e par di stare a scuola dello stupore.

Le sue opere sono drappi leggeri che aderiscono allo spirito che le informa rivelando l'immanenza di un phatos divino e poetico, capace di suscitare una professio fidei e consegnare un testamentum vitae. Grazie alla sua perizia e al suo animo caldamente dotato, Lamagna ci fa incontrare Dio attraverso il fascino e la nostalgia della bellezza che come fiume straripano dai suoi lavori, collocandosi sotto il profilo meramente artistico all'interno di quella stagione felice della scultura del '900 che Maurizio Calvesi ha definito la linea italiana.

Sullo sfondo dell'umile ritorno all'umano-divino dell'arte, scrutato nel linguaggio figurativo del passato, ma soprattutto ascoltato e costruito nel più intimo della propria coscienza e sensibilità, emerge la personalità di Lamagna nelle sue porte di bronzo per la menzionata Basilica di Santa Maria della Vittoria in San Vito dei Normanni vicino a Brindisi, là dove le forme prodigiosamente sottratte dalla fìnitudine della materia cantano i magnolia Dei.

In ambedue le porte — la Porta Santa e la Porta del Giubileo— grazie alla indiscussa perizia del Maestro Lamagna, si coglie la realizzazione piena di un incontro fecondo tra la tradizione e la modernità, tra l'eterno e il drammaticamente temporaneo, tra liturgia e devozione in un dettato scultoreo di rara e immediata suggestione comunicativa. Le due porte non sono qui soltanto due ingressi. Esse sono invece due grandi pagine di quell'atlante iconografico (M. Chagall) che è la Bibbia, e che il Maestro ha inteso offrire alla lettura e alla stupita contemplazione dei fedeli nell'atto in cui si accingono a varcare la soglia del paradiso. Perché tutte aprono la via e conducono all'incontro nuziale con Dio, nostra festa senza fine. Data la sua funzione, la porta è assunta come segno rilevante ed è un elemento sacrale di primaria importanza nel complesso processo di simbolizzazione.

La sua natura di varco tra il mondo umano e il mondo divino da infatti ad essa una rilevanza grave e solenne facendola assurgere, come attesta la nostra tradizione meridionale, a valore di icona culturale e cultuale. Di questa altissima funzione si è fatto interprete qualificato Lamagna che con la sua cultura e con la sua fede ha fatto delle due porte un Manifesto dichiarativo della identità di un popolo e della sua fede. Le due porte di San Vito dei Normanni infatti assolvono la funzione di araldo che pro-voca vicini e lontani a una salutare riflessione, seduce con il suo intrinseco fascino quanti l'ammirano, propone un annuncio di chiaro sapore cherigmatico.

Nella porta piccola, detta Porta Santa, il corredo simbolico e iconografico messo in atto dall'Artista evidenzia a chiare lettere la natura e la finalità dell'edifìcio basilicale, eretto dai padri per celebrare il trionfo della Vittoria di Lepanto, ottenuto grazie alla materna intercessione di Maria. I quattro pannelli infatti, pur incalzati dall'esigenza del racconto e dalla intelligibilità dei segni, proclamano, attraverso un voluto impianto chiastico, la vittoria della vita sulla morte, della luce sulle tenebre, quale annunzio pasquale da far riecheggiare agli uomini di oggi e di domani. In tal senso, il racconto storico diventa pretesto per una narrazione meta-storica.

Ad offrirci la chiave di lettura è la Scrittura che l'Artista dimostra di conoscere bene, e precisamente il libro dell'Apocalisse. Da esso attinge la laida figura della morte, assisa su un rabbioso e minaccioso cavallo nell'atto di spargere timore e paura tra gli uomini. Ad esso corrisponde un etereo, diafano angelo annunziante la vittoria con squilli di tromba, le cui note sembrano scuotere persino le abissali porte infernali.

Ancora: l'Artista, con fine sensibilità umana si cala nella storia e ce la descrive con due toccanti immagini: il soldato morente travolto dai marosi della tempesta e una muliebre figura materna, spirante sicurezza e tenerezza per il figlio ad essa abbracciato, nell'atto di schiacciare l'infernale, orrido nemico. In questa altissima raffigurazione simbolico-biblica, la materia sembra dissolvere la rappresentazione per farci accedere al mondo del mistero e della interiorità. Viene esclusa ogni distrazione e incertezza, dispersione e ambiguità, da parte dell'Artista, per dare spazio allo slancio di un percorso lineare e Urico, drammatico e seducente insieme.

Nella seconda Porta (la grande), detta del Giubileo, il Maestro Lamagna ci consegna una intensa meditatio mortis descrittaci alla luce del cherigma pasquale, facendo così assurgere la porta, ancora una volta, ad altissimo valore iconico: essa è là come segno di Cristo, conformemente al dettato evangelico, per cui l'arte elabora di-segni atti ad indicare il visibile storico e l'ineffabile divino che lo sostanzia. L'arte infatti non ripete le cose visibili — come amava pensare Paul Klee — ma rende visibile ciò che spesso non lo è.

E se la morte del Bello è conseguenziale alla morte di Dio, in questa seconda porta, la Pasqua di Cristo diventa deflagrazione cosmica del Bello. Le due valve di questa porta del giubileo sono di una estrema e vigorosa essenzialità mista a una scandita eleganza che unifica i quattro pannelli, che sono a loro volta quasi inchiodati sulla lastra di bronzo, espressione tangibile di una convivenza col passato da parte dell'Artista e della sua naturale sicurezza di distaccarsene. Come la Pasqua, mistero antico e nuovo: antico l'evento, nuovo il senso. Anche qui si impone una lettura chiastica, con il suo dichiarato movimento che va dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto, in vista di un messaggio teologico, carico di rilevante valore simbolico.

L'albero della croce, che si erge libero e svettante sull'antico teschio di Adamo e su cui è affisso Cristo, nuovo Adamo, sembra squarciare i cieli, frantumando la materia dell'antico caos, permette ai miseri, ai derelitti e agli esclusi di accedere alle porte del Regno. La morte di Cristo squarciando il velo del tempio introduce la carovana degli stanchi e degli sfiduciati, dei relitti e degli ultimi dell'umanità rendendoli partecipi della mensa del ciclo, nel regno di Dio. La porta, in tal senso, se aperta indica la possibilità offerta all'uomo di accedere all'intimità con Dio, evidenziando la sua generosa accoglienza. Se chiusa, esprime l'idea di proteggere chi è dentro.

A cadenzare questa movenza processionale dei miseri verso il cielo sono le mirofore, le donne del primo giorno dopo il sabato, le donne innamorate del Bei Pastore, giacente sul sepolcro dopo la fatica della morte. Sono esse a risvegliare l'aurora e ad annunciarci con i loro balsami e profumi la fragranza del nuovo evento: la risurrezione di Gesù. I due pannelli, dialetticamente contrapposti ma dinamicamente complementari, ancora una volta raccontano l'avventura drammatica ed esaltante del

"Mors et vita duello conflixere mirando dux vitaemortuus regnai vivus".

Un flusso erompente di vitalità commossa si scatena dall'icona del Cristo Risorto colto dal Maestro nel suo gesto vittorioso e liberatorio dagli avviluppamenti della materia ed espresso da quell'indice puntato verso il cielo ma non disdegnando di tendere l'altra mano verso l'umanità da condurre nella terra dei viventi. Tutta la creazione, qui rappresentata dalla materia, freme e sussulta di gioia, vibra e risuona del peana pasquale intonato per noi da Colui che ha vinto la morte e ha fatto trionfare la vita.

A raccordare gli eventi fondativi di questa storia umana e divina sono le colombe le quali, poste in posizione baricentrica e non soltanto funzionale, sembrano annunciare la primavera pasquale con il loro agile e dolce volteggiare. Sono esse a spalancarci le porte e ad introdurci nel luogo in cui si compie l'epifania del mistero pasquale, sotto l'azione costante e sicura dello Spirito.

Ernesto Lamagna, che ha sempre guardato al passato, alla densità figurativa dell'antico che trova nel marmo come nel bronzo il suo mezzo di elezione, anche in queste opere di San Vito dei Normanni non rinuncia a una personale interpretazione del reale e a una trasfigurazione della materia, al fine di rendere più immediatamente recepibili i valori profondi insiti in quelle forme. Assertore convinto del valore autenticamente universale della bellezza, che trova nell'arte sacra cristiana la sua piena legittimazione, Lamagna se ne fa dispensatore e cantore. Per lui, la bellezza è un cibo indispensabile capace di nutrire ogni antropologia, e di appagare ogni sentimento nobile dell'anima. Per lui come per ogni artista vale il pensiero di un poeta cinese del VII sec. a.e., Kuan Tseu che così recita:

"Seminando una volta grano,
raccoglierai una volta.
Piantando un albero,
raccoglierai dieci volte.
Diffondendo bellezza,
raccoglierai cento volte."

E così auguro.

Felice di Molfetta
Vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano